I candomblé sono caratterizzati dalla vivacità delle loro feste. Il suono dei tamburi che pervade l’albeggiare. Le danze e i ritmi cadenzati. Le evoluzioni al suono degli atabaques e degli agogôs. I movimenti e le piroette vertiginose dei ballerini, le esuberanti coreografie, esotiche nella loro combinazione di movimenti, suoni e colori. Questo aspetto si impone a tal punto che siamo a volte portati a dimenticare il prosaico lavoro che costituisce la quotidianità dei culti afro-brasiliani.

   Agli occhi di persone abituate a forme più contenute di pietas sembrerà, sempre, poco credibile che si tratti, nella fattispecie, di manifestazioni liturgiche degne di tal nome.
Le critiche al riguardo sono antiche e si ripetono da molto tempo. I “tranquilli cittadini”, la “gente perbene” hanno il sonno lieve e tendono, sempre, ad essere infastiditi da queste manifestazioni. Mal sopportano queste voci d’Africa, impertinenti promemoria di una eterogeneità che oltrepassa tutti i domini, fisici, intellettuali (culturali), affettivi, sociali e, soprattutto, religiosi (si legga morali). I più infastiditi mormorano.
A volte chiamano la polizia, oggi come ai tempi di Nina Rodrigues.

   La prospettiva malevola è il risultato di una visione di chi parla in terza persona. Chi va ai candomblé, invece, vede qualcos’altro.
Sarebbe sufficiente che chi critica assistesse a una di quelle grandi feste pubbliche che sono le saídas-de-iaô. Vedrebbe il povo-de-santo parlare di se stesso in prima persona. Assisterebbe a un evento umano paradigmatico. Forse non arriverebbe a comprendere pienamente i significati e le implicazioni di questa storia del candomblé, sul candomblé e per il candomblé, rappresentata di fronte a sé. Tuttavia, non potrebbe non avvertire la profonda impressione causata dalla ricercatezza e dallo splendore di questa liturgia. Potrà dimenticare i dettagli del rituale, ma saprà, da quel momento in poi, come si festeggia nel candomblé la nascita di un nuovo filho-de-santo. E, forse, avrà il desiderio di sapere cosa esattamente significa la cerimonia dell’orúko. Quando accadrà questo, sarà pronto ad intraprendere una etnografia.

(Vogel, A., Mello, M.A. Da Silva, Barros, J.F. Pessoa De,
Galinha-d’angola. Iniciação e Identidade na Cultura Afro-Brasileira,
Pallas, Rio de Janeiro, 1993) 

Trad. it. Tiziana Tonon


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